Flavio Arrigoni

2007

Il portafortuna

von Flavio Arrigoni

Si recava nello studio privato di Mister ogni mattina alle 11, dopo essere stata invitata il primo giorno del suo arrivo a Casa Brahn: l’impresa informatizzata globalizzata superamministrata universale. Le piaceva istintivamente correre da Mister, senza chiedersi il perché. Negli occhi vivaci e indulgenti del capo notava un universo di emozioni gerarchizzate e padroneggiate. Doveva essere uno di quegli uomini che in ogni secondo della vita hanno un colloquio ostinato con se stessi e, pure consapevoli delle loro fortune, vengono toccati da rimpianti per ciò che non hanno fatto o potuto fare…
Joska registrava nel suo disco mentale ogni momento della visita: arrivare davanti allo studio al centro della villa, al centro dell’immenso parco, probabilmente al centro del mondo. Sbirciare l’orologio, bussare con il suo gesto personalizzato, aspettare la voce tanto suadente. Entrare e rispondere a un saluto tipo: Mentre ti avvicinavi mi sono accorto del tuo camminare indeciso.
— Ogni volta sento paura a venire da lei.
— Ti fa paura? perché?
— No, non è giusto dire paura, sono ansiosa… Ho paura di non sapere cosa dire, cosa fare, di essere impacciata.
— Impacciata tu, ma cosa dici! Tu sei riservata, discreta... Il nostro incontro quotidiano non è più soltanto un incontro, è diventato un convegno.
— Non so ancora molte parole, signore, ma mi sembra di avere capito quello che dice.
— Sì, un convegno non segreto, — sorride sornione. — Senza nessuna implicazione fisica, finora, ma non asettico, è il massimo dell’inimitabile… Finora… ma dopo? ci sarà uno sviluppo, ne sono sicuro, ma come sarà l’evoluzione dei nostri convegni delle 11?
Joska sa di suscitare nelle persone una immediata reazione gradevole. Non che le dispiaccia, anzi, non che abbia mai usato il suo magnetismo per altri fini. Anche stavolta è capitato, pensa:
— Lei è un signore famoso e tutti dicono che lei è “l’uomo inconsueto”. Non so cosa vuol dire, ma deve essere bello.
— Io un uomo inconsueto? Mhmmm, ne dubito. Ma è un’espressione nuova e suona bene, avrà molto successo… Famoso? mi lascia indifferente. Il mio scatolone delle medaglie e dei riconoscimenti, quello che dovrebbe ospitare l’ipocrisia della collettività e del potere, è desolatamente vuoto. Rifiuto le medaglie perché non sanno bisbigliare, ma irrompono con troppo rumore. Gli usurai delle medaglie mi assediano e mi fanno ridere…
Joska crollava sul divano dell’angolo relax. Mister si metteva sulla poltrona e le chiedeva di raccontare la mattinata del suo impegno con Ahmed, il giovane ospite della Casa costretto sulla sedia a rotelle.
— È un impegno piacevole per me: Ahmed è un ragazzo interessante e spiritoso, pieno di fantasia.
In seguito Mister le chiedeva se volesse ascoltare musica. Da quando lei aveva raccontato del violoncellista amico di famiglia, che la domenica pranzava da loro e poi suonava Bach. Tutti piangevano per la dolcezza ineguagliabile della musica e per la tragedia di quell’uomo di talento inviso al regime. Un giorno:
— Joska, ti vorrei chiedere una cosa: come hai potuto lasciare i tuoi famigliari, la tua casa, la tua città?
Allora Joska levò dalla tasca il portafortuna emblema del più importante cambiamento della sua vita, che si era portata appresso due anni prima, quando era partita, e lo mise davanti a lui.

Non poteva togliersi il cappotto a causa del freddo, tutto era gelido nell’appartamento. Perdonava l’impennata di sconforto di suo padre. Sua madre invece sapeva confrontarsi con le disavventure della vita. Dopo la caduta precipitosa del regime, il passaggio del quartiere nelle mani di una società di speculatori aveva deteriorato la condizione degli inquilini e fatto aumentare gli affitti, senza contropartite.
Le feste di Natale e Capodanno erano svanite e tutto rientrava nello squallore e nello spiacevole. La recente nevicata non aveva certo migliorato la situazione. Come si fa a gradire lo sfarfallare dei fiocchi di neve sui tetti delle chiese e i campanili a cipolla verdi di rame? O il rabbioso spruzzare dei bioccoli sopra il fiume maestoso che attraversa la città? Se poi la neve è sporca oleosa a causa della vicina centrale termica che erutta miasmi?
Sei un riccio di mare centuplicato, le diceva Sandor, il compagno di scuola intelligente ed estroso.
Ora vede nello specchio che Sandor aveva ragione, ed è così ancora oggi. Una giovane scontentezza per questi capelli lunghi castani, come aghi sparati fuori a raggiera, scapestrati. Li ha fatti allungare con perseveranza, giorno dopo giorno. Quando ricadono sulla nuca e la schiena, tendono a seguire la linea della colonna vertebrale e a raccorciarsi ai lati, sfumandosi. La cascata le impone un portamento eretto e quieto.
Sei una cariatide dell’Acropoli,le diceva Sandor, il compagno più evoluto tra gli studenti ancora adolescenti.
Joska scruta i propri occhi nello specchio e non le sembrano più i suoi. Forse colpa dell’abbigliamento invernale che non può abbandonare quando rientra dal lavoro. Oppure le vecchie macchine per scrivere obsolete dell’ufficio, che attendono il pensionamento e che si lamentano per il freddo, forse altro ancora. I suoi occhi non li vede più dolci e fraterni, ma nascondono un pensiero fisso persistente che si è affacciato negli ultimi tempi nei suoi pensieri.
I tuoi occhi sono feritoie di sole, le diceva Sandor con il volto acceso. Certo, i suoi occhi sempre un po’ socchiusi, che al centro del volto finiscono rivolti in basso, appena appena, in modo impercettibile.
Occhi che completano sul volto la serie delle linee orizzontali, come anche le sopracciglia o la bocca… L’insieme del volto di Joska è armonioso, ma uno deve studiarlo bene per scoprire il segreto di tale miracolo di perfezione. Disegnato da un artista profondamente innamorato di senso estetico. Un volto da sfiorare con dita prudenti…
Sono io il primo ragazzo che farà sesso con te?, le chiedeva Sandor, durante le lezioni di scienze, seduto dietro di lei. Sandor era più maturo degli altri compagni di scuola. Ma Joska non pensava certo a Sandor, non perché non le piacesse, ma perché molto amico e familiare, ma anche troppo sicuro di sé e privo di dubbi.

L’inverno eccezionalmente asciutto aveva impoverito il magnifico fiume simbolo della città, senza tuttavia lasciare allo sbaraglio i suoi abitanti volatili. Sulle rive la città aveva provveduto a istallare rifugi e la gente era spesso al fiume a portare cibo ai cormorani, upupe, aironi, cigni. Anche il padre di Joska ci andava, con il pane troppo raffermo perché si potesse ancora mangiarlo. La mamma diceva:
— Tra noi poveri, persone o bestie fa lo stesso, è bello che ci aiutiamo. Se un giorno finalmente l’inverno finirà, saranno loro a ringraziarci con la loro presenza e i canti.
Come auspicio della bella stagione, erano state risistemate le centinaia di pali con in cima la piattaforma per le cicogne, per aiutarle a nidificare. “Quando volano le cicogne”, allora, vuol dire che è primavera e che ritorna la speranza. Simbolici quei nidi che attendono l’arrivo dei nobili uccelli dal piumaggio bianco e nero e dalle grida di gioia…È la civiltà dell’amicizia tra le persone e tutti gli altri esseri animati. È un giardino dell’eden seconda edizione, reale non metaforico. Quello che l’umanità avrebbe dovuto realizzare già l’indomani del diluvio, appena veduto nel cielo l’arcobaleno dell’alleanza.
Quando suo padre rientrava dalla passeggiata era ancora più scontento, tutto gli appariva sgraziato: i cassonetti strapieni e rovesciati, le auto posteggiate sui marciapiedi, le sue scarpe inadeguate, i discorsi sfiduciati malinconici dei vecchi.
L’appartamento sentiva di cavolo, come sempre. Un odore familiare, ma insopportabile quando le cose non girano per il verso giusto. E le porte interne non restavano più aperte. Nessun motivo logico per cui quelle briccone non restassero aperte. Da sole si chiudevano, come se volessero separare le persone. Era necessario ogni volta collocare a terra un oggetto pesante per ostacolare i loro empi propositi. Non servì a nulla nemmeno un intervento svogliato del papà, con il cacciavite e altri arnesi. Anzi, un paio di porte permalose manifestarono resistenza ogni volta che le si voleva aprire. La nonna, malandata con le gambe gonfie e le ginocchia doloranti, portava pazienza, spesso chiusa nella stanza di quasi inferma, quando qualcuno dimenticava l’oggetto.

Da parecchio tempo pensa alla proposta che le ha fatto l’amica Hella, sua vicina di casa: partire. Partire per l’occidente, insieme loro due e altre. Partire, non fuggire. Cercare una vita da vivere, non da sopportare. E dare una risposta al bisogno di evasione e di cambiamenti.
Un giorno le due ragazze vennero contattate da un certo Wolkosny, che offriva l’organizzazione della trasferta:
— Noi siamo gli specialisti, siamo a vostra disposizione per facilitarvi ogni servizio: il viaggio, le formalità di entrata e la sistemazione in qualsiasi paese occidentale… E possiamo aiutarvi anche nella ricerca di lavoro.
Joska intuì che quel tipo aveva sentimenti caliginosi: voleva concludere frettolosamente e chiedeva una cifra non troppo alta. Il tizio le si avvicinò e con voce melliflua le disse:
— Hai un bel seno tornito, ragazza, ti aiuterà nel lavoro…
L’eloquente terribilità di quella frase scoraggiò le ragazze, che rifiutarono la collaborazione con il signor Wolkosny, il quale si mostrò irritato per il mancato accordo.
La nonna quando seppe della sua intenzione di voler emigrare scivolò nella tristezza:
— Joska, bambina mia, stai attenta: nei paesi ricchi vivono senza religione. Quelli della tua età non credono a niente. Stai attenta, Joska, non lasciarti influenzare. E poi là c’è gente di tutto il mondo, è una baraonda…
Sua madre invece:
— A noi dispiace che te ne vai, Joska, però ti capiamo. Stai attenta di non lasciarti disgregare, è facile là in occidente. La mentalità non è come la nostra: là sono chiassosi, la gente è modaiola e irreale…
Ma Joska aveva letto un romanzo appena pubblicato di un grande scrittore europeo, nel quale una frase l’aveva commossa: “Bisognava amare il nemico, perché anche lui un giorno era stato bambino”.

Qualche giorno dopo Joska decide di farsi tagliare i capelli, non senza esitazione. Dice addio alla cascata scapestrata che ricade sulla nuca e lungo la schiena. E alla famosa acconciatura a crocchia che le dà l’aspetto di un riccio di mare centuplicato. I capelli li fa tingere di un rosso rame.
È una sfida, come un segno che rivolge al proprio futuro.
Quando esce dal negozio, per tutta la città ode un magnifico suono di corno inglese. Il vento lo porta da una fonte lontana e sconosciuta e lo rende più o meno intenso, cangiante come velluto. È una voce malinconica, delicata e insieme penetrante. L’energia che sprigiona conforta e commuove.
Joska attraversa il parco pubblico per tornare a casa e si ferma sopra una panchina libera dalla neve. Medita sulla sua prossima partenza e piange. Una ragazza che passa infreddolita le si avvicina e le chiede se abbia bisogno di aiuto, ma lei scrolla la testa e la ringrazia, l’altra se ne va.
Le fa commozione costatare il piangere che fa la gente in tutto il mondo: per i problemi che non può risolvere, per la salute che se ne va, per i tradimenti subiti, per le partenze dolorose e definitive, per le partecipazioni cancellate,…
Forse lo scintillio cromatico di quelle note non vaga nell’aria, ma esce dalla sua memoria. Il suono struggente del corno inglese, che sorvola una città ignara, le suggerisce che se un giorno dovesse tornare a casa non troverà più nessuno.