Tina Biasci

2007

LE PARLEREI DI TE

von Biasci Tina

Le cose sono senza fine, anche le storie: esse intrecciano nodi con vicende vissute o immaginate, con sogni importanti o mutevoli, con emozioni lievi o profonde. Come la storia della mia infanzia che è inesorabilmente fluita nella tua, nonna.

Quali parole sono rimaste impigliate nella tua bocca? Parole che saprebbero di dimenticato, che avrebbero quel gusto di vecchio forse, ma sarebbero certamente anche piene di fascino. Avrei voluto rovistare per qualche lungo minuto nel tuo cuore, ma ora te ne stai già rinchiusa dentro questa scatola di mogano per sempre. Ci avrei trovato le parole non espresse che stavano nei silenzi che ci siamo scambiate per tanti anni, nonna. Silenzi strani col senno di poi e normali con gli occhi di allora, perché sono cresciuta in quell'assenza di parole. Da adulta ho imparato che le parole a volte hanno gusti sbalgiati: troppo amari o aspri, troppo dolci o salati. E allora qualche volta è meglio un silenzio in cui puoi posare i pensieri che vuoi tu, quelli che più ti fanno piacere, quelli che aprono i pori della pelle come il fiato caldo. Le parole hanno smesso di crescere dentro di te da tanti anni, ormai. Le ho attese come ora attendo l'arrivo di un bebé, ma non le hai mai sguinzagliate, e, ora che sei morta, posso rassegnarmi.

Hai cessato di parlare quando sono venuta al mondo e mia madre è morta di parto, si è rotto il suo grembo. Se n'è andata senza nutrirmi, senza parlarmi o sorridermi. Ci hai pensato tu, cristallizzando il tuo amore per me in un eterno silenzio. Ho sentito la tua voce morbida quando soffiavi delicatamente fra le labbra una nenia. Me la ricordo ancora e la canterò a mia figlia, se mai ne avrò una. La vorrei tanto, sai nonna, una figlia. Le parlerei di te, di com'eri bella con i tuoi capelli rossi, ricci che ti ballavano in testa mentre mi portavi in braccio a guardare fuori dalla finestra, dei tuoi bei seni pieni o delle tue gambe lunghe e magre. Oppure le racconterei di casa nostra che era talmente piccola che le tre stanze sembravano impigliate l'una nell'altra, una casa che aveva odore di legno, di aglio e di alloro. In inverno anche di castagne. O ancora le parlerei del nostro giardino: piccolo e selvaggio. Ci abitavano molti insetti e uccelli che mi lasciavi osservare e prendere in mano per sentirli miei anche solo per poco. Della maggior parte non consoco il nome: tu non me lo insegnasti. È strano pensare alle cose che non si chiamavano quand'ero bambina. Erano e basta, e non avevano la cornice del nome. Le cose e i sentimenti della mia infanzia erano forse più liberi, più ampi, più vulnerabili, come un fiume senza argini.
Ci sono voluti pochi attimi per creare la nostra unione che sembrava fragile agli occhi dei vicini scettici. Vivevamo lentamente, al ritmo del sole e della luna, la noia faceva in tempo a impolverare i nostri sentimenti, i nostri passi erano lenti, quasi immobili, gli sguardi si stendevano sottili tra di noi, i sorrisi si riempivano d'intesa, la mano era accucciata nella mano per muoverci fuori casa, per non perderci.
A mia figlia racconterei pure di quel giorno in cui era venuta a prendermi la donna per portarmi a scuola, dove imparai a parlare, a leggere, a scrivere, a contare, a mangiare come tutti gli altri e a dormire in un letto singolo. Non avevo mai
dormito sola in tutta la mia vita: c'eri sempre tu accanto a me a cullarmi, a soffiare via gli incubi e a scaldarmi. Nel letto, a scuola, lasciavo sedimentare dentro di me il vuoto pesante, aprivo e chiudevo gli occhi, tagliavo e ricucivo le emozioni di tristezza, curavo e accarezzavo le pieghe che si erano messe nel mio cuore, rabberciavo la mia anima fragile e malleabile, a seconda della giornata che mi era stata intorno. Dentro di me si rannicchiò una folla di paure, di dolori e di rabbia, ma poi imparai presto a dare un nome alle cose e a leggere, così la sera, accompagnata dalla luce della lampadina, mi riempivo di storie scritte nei libre ed era un sollievo lasciarmi fasciare da tante parole.
Mi venisti a prendere, un giorno, per riportarmi a casa per l'estate, ricordi? Io ero nuova, vestita di parole, mentre tu eri come sempre: muta, forte e trasparente. Restammo insieme giorno e notte, in sielnzio. Io ero cresciuta e tu l'avevi notato: me ne accorsi da come mi guardavi, da come mi appoggiavi addosso i vestiti vecchi, poi li toglievi e li mettevi via. Ti dissi di non preoccuparti: i vestiti ora me li procurava la donna che era venuta a prendermi. Lì, nella scuola, ne avevano tanti. Anche di libri. Te ne parlai. Ne avevo ricevuto uno in regalo che parlava di un bambino che voleva sposare la luna per imparare a volare. Te lo volli leggere, ma la voce divenne dapprima tremolante, poi di sasso, infine ci misi delle lacrime per scioglierla e lasciarla scivolare fuori dalla bocca. Mi sorridesti mentre ti leggevo quella storia. La leggerò anche a mia figlia, un giorno. Commuoverà anche lei l'innocenza del piccolo protagonista.
In autunno il tempo era ancora mite, il vento timido sfiorava le nostre vite e noi lo guardavamo passare e proseguire per il suo viaggio infinito. Poi arrivò di nuovo aprendermi la donna per portarmi a scuola. Ci scambiammo un bacio morbido e ti lasciai lì, a rigirarti nel tuo silenzio.
Fu lei, la donna, a parlarmi di te, di mia madre morta, di come seppellisti la parola, di come mio padre se ne andò lontano per sempre, di come mi hai amata e voluta tenere con te. Mi spegò il significato di madre e di nonna: una madre stringe nel suo ventre il proprio bambino, una nonna, la madre della madre, stringe quel bambino nel cuore. La donna mi disse il tuo nome, Rosa, e il mio, Caterina, il nome di mia madre: un sospiro breve che mi lega a lei.
Con l'andare dei giorni i miei pensieri erano sempre più sostenuti dalle parole; la mia vita, fino a quel momento liquida, divenne densa e cominciò a stare in piedi da sola.
Passarono gli anni e la scuola finì. Il mestiere di giardiniera me lo insegnasti tu. Imparai da te ad accarezzare i fiori e le piante, a cantare loro le nenie che cantavi anche a me, a potarli e a incoraggiarli, a vederli sorridere e dire grazie, a capire la terra, a toccarla, a rimestarla e ad amarla. Mia filgia, un giorno, erediterà questa conoscenza da me.

È da tante ore che me ne sto qui accovacciata sulla tua tomba, ad accarezzarla, a parlarti. Ci si arrugginisce un po' qui, al cimitero, con tutta l'umidità che dorme dentro le lacrime. Fuori c'è un bus che passa sbuffando ogni quindici minuti e macchine che marciano a rilento. Là c'è la vita, mentre qui c'è la morte schiacciata sotto terra. Io mi sento meglio qui, tra i morti che emananono solo un confortevole silenzio, mentre nei bus si parla di niente, si pronunciano frasi fatte, vuote che riempiono quelle vite scandite da gesti monotoni, scoloriti e ripetitivi. Ma queste sono altre storie.

Verrò a trovarti tutti i giorni: lunedì, martedì, mercoledì, giovedì, venerdì, sabato e domenica, e quando avrò una figlia porterò anche lei.