Gerry Mottis
2006
Lettera della speranza
von Gerry Mottis
Mamma, non sono ancora giunta a destinazione, benché navighiamo già da molte ore - non
so con precisione quante. L'unica sicurezza che mi sorregge è, nel tuo
volto in lacrime, teso, un braccio levato al cielo, un fazzoletto sporco nella mano, la tua promessa: "Ci rivedremo presto!". La tua immagine mi ritorna continuamente, come queste fole di vento marino che ci
colpiscono come schiaffi sulla faccia. Fa freddo e nessuno è disposto ad aiutare alcuno. Sono tutti silenziosi, tristi, mormorano tra sé chissà
quale litania. Non conosco nessuno. Ho paura di quei volti che sanno
delle mie stesse disgrazie. Puzzano da far spavento. Così come loro -
immagino - puzzo anch'io, con le mie tragedie. Mi vedessi allo specchio… Le scarpe nascoste dietro uno strato spesso di fango, il cappotto
troppo grande per me - ti ricordi? Lo sfilammo al vecchio Ibrahim inerme al suolo, tra un singhiozzo e l'altro e tu, senza esitare, lo porgesti a me che tremavo dal freddo e dalla paura che scoppiasse un'altra raffica di fucili nella nostra direzione - i vestiti fradici e sporchi, i
capelli che mi frustano il viso. Il mio viso… probabilmente vedrei uno
spettro di bambina terrorizzata che si è imbarcata verso l'ignoto… una
bambina di diciassette anni, Katja, piccola e mingherlina… sola su una
carretta di mare verso l'Italia. Ne parlavano tutti, dell'Italia, e
nessuno sapeva nemmeno localizzarla con esattezza. "Oltre il mare",
dicevano molti. "A un tiro di schioppo", dicevano altri. Tutti avevano
le idee vaghe, imprecise, imbottite di speranze e di sogni. Già,
anch'io, in fondo, mi aggrappo a questi sogni… Sogno un po' di pace… e
di rivederti presto, di nuovo là, in quell'improvvisato e squallido
porto dal quale siamo salpati verso - appunto - l'Italia.
Come avrai fatto a convincere quel guercio "capitano" - come lo
chiamavano tutti montando correndo a bordo - a prendere anche me, non me lo immagino proprio. Noi che non avevamo un soldo in tasca… Quanto
avrai dovuto pregarlo, piangere ai suoi piedi, elargirgli mille promesse di denaro. Oppure fu per pura fatalità dell'istante di grave pericolo…
Noi, proprio noi - povere cristiane - che vivevamo in una stalla
puzzolente. Noi due, due donne che nessuno amava, di cui nessuno
ascoltava il pianto silenzioso, dopo la morte del papà, sotto il fuoco
di quella terribile notte tra il 15 e il 16 agosto che ci separa da così pochi mesi e che - ciononostante - ha infranto per sempre la nostra
vita. Povero papà… Ci amava, lui. Ci amava veramente. Ora non ho più
nemmeno una madre accanto a me. Solo sguardi biechi, sconosciuti,
terrorizzati quanto i miei occhi.
Ho iniziato a scriverti questa lettera per paura di incrociare quegli
sguardi. Lo sai, scrivere è sempre stato il mio forte, la mia passione. A scuola - per quel poco che è rimasta in piedi - ero sempre la più
brava. Sarà per le letture che papà sempre mi consigliava. Come sai,
leggevamo molto assieme, di notte, mentre tu dormivi e - ogni tanto -
qualche colpo fendeva la casa e noi sussultavamo, per poi proseguire
quando ricadeva il silenzio assoluto. Di libri, poi, non ne abbiamo mai
più posseduti. Anche adesso regna il silenzio. Nessuno scoppio, solo il
sibilo del vento, qualche gabbiano che gracchia alto nel cielo di
piombo. Non mi sono mai sentita tanto sola in vita mia. Nemmeno quella
notte che mi lasciasti con la promessa "Torno subito, bambina, non ti
preoccupare" e partisti con un fioco lume nelle mani tremule alla
ricerca di chissà che cosa. Rientrasti molte ore dopo con qualche
straccio nelle mani, pezzi di pane, tre uova, un cappellaccio infangato. Ma la mia attesa fu dolorosa e silenziosa. Mentre tutt'attorno
riecheggiavano gli scoppi delle mitraglie, io tremavo di paura, e tu -
madre - eri là fuori, in cerca delle tre uova che ci avrebbero concesso
un po' di allevio allo stomaco, un po' di forza, l'umiltà di non cedere
ancora.
Or ora - oltre al tuo volto rigato - la mia mente freme di suoni e
rumori e scoppi, ancora. Come potrò dimenticare l'ultima notte trascorsa assieme? Come potrò disfarmi di tutte le sensazioni atroci che ci hanno accompagnato fino al limite della follia? Madre mia, nessuno mai potrà
ammirare la tua eroicità. A nessuno interesserebbe. Nessuno oserebbe
chiederti dove hai tratto tanta forza, tanto coraggio. Dalla miseria o
dalla fede incrollabile? Oppure - semplicemente, tenero cuore di madre - la forza del sacrificio per una figlia…
Quando il colpo di mortaio si infranse contro la casa deserta dei
vicini, temesti seriamente per le nostre vite. Non dubitasti sul da
farsi: mi stringesti per un attimo al petto caldo e, presami la mano,
incominciammo a correre nella notte. Una bambina fragile di diciassette
anni che correva aggrappata alla madre, mentre - una volta vicino,
un'altra lontano - tremava la terra per i colpi d'artiglieria. In fondo, cosa potevamo fare? Il pericolo era troppo grande, questa volta…
insopportabile… Corremmo nel fango per molti minuti, scansando rovine di muri, pareti di case crollate, chiesette diroccate, e - come noi -
altra gente correva e scivolava sul fango. Qualche asino legato a un
palo scalpicciava, un cavallo galoppava pericolosamente solo per strada, cani fuggivano con la coda fra le gambe, fradici e stecchini. "Venite!
Venite!" ci gridarono improvvisamente da un uscio semispalancato due
anziane vedove. Ci rifugiammo per un attimo tra le loro mura. "Siete
pazze a fuggire nella notte in questo modo?", ci chiesero. Col fiato
grosso tu rispondesti: "Non ci resta che correre…". In tutta la tua
tragicità avevi svelato la nostra paura e l'attaccamento a quel nulla di vita. "Restate pure qui", disse la donna apparentemente più vecchia,
"se vi sentite al sicuro, questa notte." "Ho sentito", rispondesti tu
con tono speranzoso "di una nave, giù al porto, pronta a salpare 'sta
notte…". Le donne, imbarazzate, tacquero un attimo, poi la più giovane
prese il sopravvento sull'anziana (forse la madre) e disse: "Ma è una
vera follia? Lo sapete che chiedono duemila dollari per persona e, da
quanto ne sappiamo, nessuno potrebbe mai esser giunto in Italia?". Io
tremavo, mentre tu, determinata, sostenevi i loro sguardi tesi. "È per
mia figlia", dicesti, "io rimarrò a pregare perché trovi un po' di
pace…". E, poi, aggiungesti: "Per i soldi, troverò una soluzione al
momento opportuno…". "Ce ne dobbiamo andare, adesso", concludesti
ringraziandole. "Povere donne, che Dio vi protegga", sentimmo sussurrare dietro di noi appena iniziato a correre lungo il vialone oscuro.
Al porto era un gran via vai di gente. Pochi marinai e il "capitano" -
come ben ricorderai - erano armati. Da lontano echeggiavano raffiche di
mitraglietta e colpi di mortaio. Un'unica barca attendeva in porto.
Un'unica scaletta permetteva l'imbarco. Due giganti barbuti la
sorvegliavano impugnando piccoli fucili, mentre attorno molti civili si
accalcavano intorno al capitano che reclutava i passeggeri a suon di
bigliettoni. Dollari, solo dollari distinguevano chi partiva da chi
restava… La nostra sudicia moneta non contava nulla… nemmeno in terra
nostra… Fu in quell'istante - mamma - che capii ciò che stava accadendo. Si apriva la possibilità di una vera fuga, una partenza, una reale
salvezza! Ma - mentre ci avvicinammo anche noi (tu mi stringevi
saldamente la mano) - scoppiò improvvisa una lite e qualcuno sparò in
aria. Tutti si tuffarono nel fango e tu - valente - mi trascinasti
invece verso i due giganti barbuti e iniziasti a parlottare animatamente con loro. Io - frastornata - non comprendevo più nulla. La terra iniziò a tremare per lo scoppio di una granata - credo io - a poche decine di
metri da lì. Qualcuno gridò: "Ci attaccano! Salpiamo subito!". Tutti si
rialzarono e iniziarono a gridare e a mercanteggiare col "capitano" la
loro salvezza. In men che non si dica mi ritrovai sul ponte della nave,
gente che spingeva alle spalle, persone che gridavano "vigliacchi!",
colpi d'arma da fuoco sibilavano contro il metallo dello scafo e -
mentre qualcuno ruppe gli ormeggi frettolosamente e la barca tremò
libera sulle acque - mi accorsi con angoscia che tu eri rimasta a terra, nella notte, lacrime luccicavano sul tuo volto, una mano alzata, un
fazzoletto sporco e le tue ultime parole: "Ci rivedremo presto!".
"Ci rivedremo presto". È quanto più spero al mondo. La notte fredda e
ventosa mi investe. È tutto così irreale: il silenzio, la quiete del
mare, le stelle nel cielo - da quanto non osservavo più un cielo
stellato se non con la paura che da lì piovessero granate? - gli uomini, donne e bambini che dormono accalcati gli uni agli altri. Qualcuno
russa persino. La barca è malconcia. Alla luce del giorno - credo - a
nessuno sarebbe mai venuto in mente di affidarsi a questo rottame di
metallo: pareti scrostate, nemmeno una stiva, puzzo dappertutto e
sporcizia, e tanta gente ammassata, senza riparo dalla gelida notte.
Cosa mi attende oltre questo mare, madre? Parrebbe un sogno ormeggiare
le rive d'Italia e rivederti là, questa volta dalla parte buona, là ad
accogliermi con gioia, un vestito a festa, un braccio alzato, un
fazzoletto immacolato nella mano levata, un volto sereno e truccato,
capelli raccolti morbidamente dietro la nuca… Nutro forte questa
speranza… di potere riabbracciarti… ripagarti anche solo di un sorriso
per il tuo sacrificio di madre. Anche a me va di prometterti qualcosa:
un giorno ti consegnerò di persona questa lettera, affinché nulla vada
perduto del tuo eroico gesto. Quel gesto che a nessuno interessa, ma che per me rappresenta la salvezza, la speranza di un avvenire migliore…
Senza nome. Senza data. Foglio trovato in mare dalle guardie costiere di Brindisi all'indomani della sciagura di un mercantile kossovaro colato a picco. 457 i morti accertati.