Tina Biasci
LE PARLEREI DI TE
von Biasci Tina
Le cose sono senza
fine, anche le storie: esse intrecciano nodi con vicende vissute o
immaginate, con sogni importanti o mutevoli, con emozioni lievi o
profonde. Come la storia della mia infanzia che è inesorabilmente fluita nella tua, nonna.
Quali parole sono rimaste impigliate nella tua bocca? Parole che
saprebbero di dimenticato, che avrebbero quel gusto di vecchio forse, ma sarebbero certamente anche piene di fascino. Avrei voluto rovistare per qualche lungo minuto nel tuo cuore, ma ora te ne stai già rinchiusa
dentro questa scatola di mogano per sempre. Ci avrei trovato le parole
non espresse che stavano nei silenzi che ci siamo scambiate per tanti
anni, nonna. Silenzi strani col senno di poi e normali con gli occhi di
allora, perché sono cresciuta in quell'assenza di parole. Da adulta ho
imparato che le parole a volte hanno gusti sbalgiati: troppo amari o
aspri, troppo dolci o salati. E allora qualche volta è meglio un
silenzio in cui puoi posare i pensieri che vuoi tu, quelli che più ti
fanno piacere, quelli che aprono i pori della pelle come il fiato caldo. Le parole hanno smesso di crescere dentro di te da tanti anni, ormai.
Le ho attese come ora attendo l'arrivo di un bebé, ma non le hai mai
sguinzagliate, e, ora che sei morta, posso rassegnarmi.
Hai cessato di parlare quando sono venuta al mondo e mia madre è morta
di parto, si è rotto il suo grembo. Se n'è andata senza nutrirmi, senza
parlarmi o sorridermi. Ci hai pensato tu, cristallizzando il tuo amore
per me in un eterno silenzio. Ho sentito la tua voce morbida quando
soffiavi delicatamente fra le labbra una nenia. Me la ricordo ancora e
la canterò a mia figlia, se mai ne avrò una. La vorrei tanto, sai nonna, una figlia. Le parlerei di te, di com'eri bella con i tuoi capelli
rossi, ricci che ti ballavano in testa mentre mi portavi in braccio a
guardare fuori dalla finestra, dei tuoi bei seni pieni o delle tue gambe lunghe e magre. Oppure le racconterei di casa nostra che era talmente
piccola che le tre stanze sembravano impigliate l'una nell'altra, una
casa che aveva odore di legno, di aglio e di alloro. In inverno anche di castagne. O ancora le parlerei del nostro giardino: piccolo e
selvaggio. Ci abitavano molti insetti e uccelli che mi lasciavi
osservare e prendere in mano per sentirli miei anche solo per poco.
Della maggior parte non consoco il nome: tu non me lo insegnasti. È
strano pensare alle cose che non si chiamavano quand'ero bambina. Erano e basta, e non avevano la cornice del nome. Le cose e i sentimenti della
mia infanzia erano forse più liberi, più ampi, più vulnerabili, come un
fiume senza argini.
Ci sono voluti pochi attimi per creare la nostra unione che sembrava
fragile agli occhi dei vicini scettici. Vivevamo lentamente, al ritmo
del sole e della luna, la noia faceva in tempo a impolverare i nostri
sentimenti, i nostri passi erano lenti, quasi immobili, gli sguardi si
stendevano sottili tra di noi, i sorrisi si riempivano d'intesa, la mano era accucciata nella mano per muoverci fuori casa, per non perderci.
A mia figlia racconterei pure di quel giorno in cui era venuta a
prendermi la donna per portarmi a scuola, dove imparai a parlare, a
leggere, a scrivere, a contare, a mangiare come tutti gli altri e a
dormire in un letto singolo. Non avevo mai
dormito sola in tutta la mia vita: c'eri sempre tu accanto a me a
cullarmi, a soffiare via gli incubi e a scaldarmi. Nel letto, a scuola,
lasciavo sedimentare dentro di me il vuoto pesante, aprivo e chiudevo
gli occhi, tagliavo e ricucivo le emozioni di tristezza, curavo e
accarezzavo le pieghe che si erano messe nel mio cuore, rabberciavo la
mia anima fragile e malleabile, a seconda della giornata che mi era
stata intorno. Dentro di me si rannicchiò una folla di paure, di dolori e di rabbia, ma poi imparai presto a dare un nome alle cose e a leggere,
così la sera, accompagnata dalla luce della lampadina, mi riempivo di
storie scritte nei libre ed era un sollievo lasciarmi fasciare da tante
parole.
Mi venisti a prendere, un giorno, per riportarmi a casa per l'estate,
ricordi? Io ero nuova, vestita di parole, mentre tu eri come sempre:
muta, forte e trasparente. Restammo insieme giorno e notte, in sielnzio. Io ero cresciuta e tu l'avevi notato: me ne accorsi da come mi
guardavi, da come mi appoggiavi addosso i vestiti vecchi, poi li
toglievi e li mettevi via. Ti dissi di non preoccuparti: i vestiti ora
me li procurava la donna che era venuta a prendermi. Lì, nella scuola,
ne avevano tanti. Anche di libri. Te ne parlai. Ne avevo ricevuto uno in regalo che parlava di un bambino che voleva sposare la luna per
imparare a volare. Te lo volli leggere, ma la voce divenne dapprima
tremolante, poi di sasso, infine ci misi delle lacrime per scioglierla e lasciarla scivolare fuori dalla bocca. Mi sorridesti mentre ti leggevo
quella storia. La leggerò anche a mia figlia, un giorno. Commuoverà
anche lei l'innocenza del piccolo protagonista.
In autunno il tempo era ancora mite, il vento timido sfiorava le nostre
vite e noi lo guardavamo passare e proseguire per il suo viaggio
infinito. Poi arrivò di nuovo aprendermi la donna per portarmi a scuola. Ci scambiammo un bacio morbido e ti lasciai lì, a rigirarti nel tuo
silenzio.
Fu lei, la donna, a parlarmi di te, di mia madre morta, di come
seppellisti la parola, di come mio padre se ne andò lontano per sempre,
di come mi hai amata e voluta tenere con te. Mi spegò il significato di
madre e di nonna: una madre stringe nel suo ventre il proprio bambino,
una nonna, la madre della madre, stringe quel bambino nel cuore. La
donna mi disse il tuo nome, Rosa, e il mio, Caterina, il nome di mia
madre: un sospiro breve che mi lega a lei.
Con l'andare dei giorni i miei pensieri erano sempre più sostenuti dalle parole; la mia vita, fino a quel momento liquida, divenne densa e
cominciò a stare in piedi da sola.
Passarono gli anni e la scuola finì. Il mestiere di giardiniera me lo
insegnasti tu. Imparai da te ad accarezzare i fiori e le piante, a
cantare loro le nenie che cantavi anche a me, a potarli e a
incoraggiarli, a vederli sorridere e dire grazie, a capire la terra, a
toccarla, a rimestarla e ad amarla. Mia filgia, un giorno, erediterà
questa conoscenza da me.
È da tante ore che me ne sto qui accovacciata sulla tua tomba, ad
accarezzarla, a parlarti. Ci si arrugginisce un po' qui, al cimitero,
con tutta l'umidità che dorme dentro le lacrime. Fuori c'è un bus che
passa sbuffando ogni quindici minuti e macchine che marciano a rilento.
Là c'è la vita, mentre qui c'è la morte schiacciata sotto terra. Io mi
sento meglio qui, tra i morti che emananono solo un confortevole
silenzio, mentre nei bus si parla di niente, si pronunciano frasi fatte, vuote che riempiono quelle vite scandite da gesti monotoni, scoloriti e ripetitivi. Ma queste sono altre storie.
Verrò a trovarti tutti i giorni: lunedì, martedì, mercoledì, giovedì,
venerdì, sabato e domenica, e quando avrò una figlia porterò anche lei.