Yari Bernasconi

2007

(senza titolo)

von Bernasconi Yari

(Faccio quel che devo fare. Nessun obbligo: seguo il binario. Eccomi.)


I.

Viene il Matto. Sorride a lungo, poi incalza: “Non c’è niente, non c’è niente!” Lo ignoro, come fanno tutti. Lascio la panchina, la vista sul mare. Riprendo a camminare sul margine della strada, dove lo sterrato inghiotte l’asfalto e i ciuffi d’erba agonizzano seccati. Le poche auto che incrocio sfrecciano boriose nell’arsura. Il meriggio trionfa.

Quando rientro in paese, la vetrina del barbiere riflette maligna il mio volto sfigurato dal caldo. Mi trascino fino al bar del porto. All’interno, l’esacerbante puzzo di pesce e sudore mi colpisce violentemente. Torno fuori, m’accomodo sugli scalini dell’entrata e ordino la solita, aspra limonata fresca. È tiepida: rovescio il contenuto per terra e non lascio la mancia. La barista, mentre m’allontano, lancia improperi alla sua vita da schiava, lei, attrice sacrificata. Cammino, ma sono stanco. Mi fermo per domandare l’ora a un passante in camicia, che non mi risponde. Lo mando al diavolo.

Abito qui da trent’anni. Conosco tutto. È inutile andarsene. Già mia sorella mi scrive del mondo, quando può. Non ho bisogno di nulla. Se avessi più soldi, li getterei via. Brucerei le banconote. C’è solo la sete, la fame. Il resto non conta. Vendo quaderni, schede di condoglianza e matite. La gente fa le tabelle, tiene i conti e calcola le perdite. Altro non interessa. Ho anche alcuni libri, quattro, mai venduti. Una sola volta un turista distratto mi ha domandato per un libro.

Torno a casa per riposare. Non mangio niente, non ho fame. Non ho mai fame la domenica. Attraversando il mio negozio per raggiungere la camera da letto, m’accorgo della confusione sul banco di vendita. Penso a quello stronzo di mio nipote che passa il finesettimana qui a scrivere. Do un calcio al suo zaino, maledico il giorno in cui gli ho dato il doppione della chiave. Proseguo a passi lenti fino alla stanza. Si moltiplica l’eco dei miei movimenti, poi, è silenzio.


II.

Le crepe del soffitto accolgono il mio sguardo: sono sveglio. Mi metto a sedere sulla branda, fisso le pareti spoglie e madide di muffa. Sono sudato, vado a prendere un bicchiere d’acqua. Vorrei fosse già sera, ma il sole alto mi sospinge nuovamente tra le strettoie del borgo e poi più giù, dov’è il mare. Mi siedo sulla rena, godo del vento. Torna il Matto, trottando. “Non c’è niente, niente che tu possa evitare.” Mi guarda severamente. Decido di mandarlo via: mi bestemmia addosso e poi corre, rotola sulla riva. Sfuma il suo contorno all’orizzonte. Mi distraggono le onde, fattesi improvvisamente più gravide di spuma. Bagno i piedi. Mi raggiunge il cenno di un pescatore senza maglietta. Alzo in ritardo il braccio: non mi vede. Percorro la cangiante frontiera della proda.

Quando entro in osteria è già buio. Chiedo controvoglia la solita, fetida zuppa del marinaio. E il vino. Mi servono quasi subito. Mangio e bevo in silenzio, finché uno dei manovali al bancone mi saluta e mi domanda come va. Gli rispondo che non mi lamento, come al solito. Che domani riapro il negozio. Che le domeniche non sono per me. “Come le donne” aggiunge sardonico. E mia sorella, allora, come la mettiamo, gli dico. “Non è la stessa cosa. E poi con tua sorella non ci vai mica a letto”. Annuisco. Ridiamo insieme.

Incontro un vecchio ubriaco sotto un lampione che singhiozza luce. Puzza, ma i miei sensi sono indeboliti dall’alcol. Mi abbraccia enfatico e mi chiama fratello. Ricambio l’affetto: gli porgo la bottiglia di vino. Restiamo immobili per diversi secondi, poi lui inizia a piangere. Comincia a raccontare di quella baldracca, di sua moglie, di sua suocera e ancora di quella baldracca. Mi spazientisco. Gli strappo la bottiglia di mano e me ne vado. Dopo qualche passo, comincio a ridere. Canticchio tra me e me. Ora ululo, ora miagolo. Arrivo a casa. Vomito e vado a letto.

Faccio spesso questo sogno: sono sulla sommità di una scala a pioli. Non succede nient’altro. Resto in bilico sulla scala, pur sapendo di non cadere. Finché mi sveglio.


III.

Ho lasciato la porta aperta: entra un gatto. Sono dietro il bancone e seguo con gli occhi i suoi movimenti. È brutto: scarno, rognoso e con pochissimi peli. Non ho voglia d’alzarmi, mi limito a gesticolare rumorosamente. S’acquatta indifferente sotto uno scaffale vuoto. Lo lascio dormire. Entra un uomo. Mi chiede, come ogni lunedì, una busta e due fogli. “Uno per la bozza,” mi dice, “così, oltre a mandare una lettera pulita, posso archiviare tutto quello che scrivo. Andare a vedere cosa ho scritto un anno fa.” Annuisco, niente di nuovo. Lascia il negozio, cammina nel tripudio della polvere.

Affiora mia sorella, così: mi lascio travolgere. La guardo mentre s’avvicina, mentre s’allontana; la guardo: m’avvicino, m’allontano. È da qualche anno che mia sorella non torna. Perlustro l’attesa: costruisco e distruggo. Il cane del mio vicino di casa passa davanti alla porta. Si ferma. S’accorge del gatto sotto lo scaffale che gli soffia contro. Comincia l’inseguimento nel mio negozio: m’alzo furibondo e scalcio. Prendo la scarpa destra e la scaravento nel vuoto. La lite si trascina in strada, per altri luoghi.

All’ora di pranzo ho fame: chiudo e mi dirigo verso l’osteria. Incontro il macellaio: anche lui sta andando a mangiare. Camminiamo insieme. Penso alla carne, al sangue, alle lame imbrattate che squartano. Tu sì che fai un bel lavoro, gli dico. Altro che carta e matite. “Ma ci vuole il fisico”, mi dice, prendendomi per la spalla. Credi che non l’avrei? “Anch’io non potrei fare il tuo lavoro”, conclude. Continuiamo in silenzio, ma lui sorride.

All’entrata dell’osteria sono trattenuto - io solo - per la maglia. “Non c’è niente, ti dico: niente di un bel limpido niente”. Cerco di divincolarmi, replico al Matto di lasciarmi in pace, di tacere. “Nemmeno questo puoi evitare: niente”. Lo spingo facendolo cadere. Lo avvilisco. Fa per andare, poi si gira e mi tira un sasso. Mi colpisce la coscia. “Niente, niente”, canterella. Lo guardo allontanarsi. Inalberarsi, mentre affondo.


(Vedo la nebbia, la nebbia, tanta nebbia. Perdo il mio tempo così, ma è tout écrit là-haut. Spero di svelarmi, un giorno, di carpirmi. Spero di avere una sorella e vorrei anche un giardino, pieno di verdi festanti. Un rastrello per le foglie: le vipere mangeranno i topi e io sarò pronto. Scriverò un romanzo epico dove serpenti e roditori si combattono. Scriverò e scriverò così tanto che mi sembrerà d’averlo fatto io, d’averlo prodotto, d’essermi scritto io stesso scrivente. Potrei a quel punto correre libero, potrei vivere e morire in un solo suono: bang, per esempio. Mi capiresti, mi capiresti. Il salotto è affollato, l’occhio ci sbrana.)