Alberto Jelmini (Montanaro)

2007

Le Vanil Noir

von Montanaro

Campi color paglia, prati verde pisello, terreni arati, poi alberi, giardini, case intraviste tra un ricamo di rami...; vicinissima, i capelli biondi di mia figlia, ostinata nel voler condurmi lei all'ospedale della capitale.
Il paesaggio, in primo piano, fuggiva rapido, poi variava sempre più lentamente man mano che lo sguardo si allontanava; quasi immobile il bosco nero all'orizzonte, interrotto ogni tanto a mostrare, lontano, le Alpi azzurrine.
Forse perché più consono al mio stato d'animo, lo sguardo amava distrarsi ricercando forme conosciute fra le catene e i picchi proiettati sullo sfondo come in un quadro di Hodler. Ecco la parete a strapiombo, incubo nei mesi di sevizio militare, e dietro,da gran signore, le tre cime più famose d'Europa.
Ad un certo punto, colline a media distanza ne impedirono la vista, ma mentre chiudevo gli occhi, rimase nell'intimo (o alla bocca dello stomaco, dove si annidava il male) un sapore di muffe ricoperte di fiorellini rosa o azzurri, mentre nel ronzio regolare dell'auto, le immagini scorrevano ora in un film tutto interiore. Come se uscissero da voragini dense di vapori, lentamente prendevano corpo figure di montagne, viste dal basso verso l'alto: avversarie ostili, ma leali, esigenti, ma generose. (Da ragazzo, una mattina la mamma mi aveva svegliato alle tre di notte per andare sull'alpe. Con mio fratello ci aveva fatti camminare senza sosta, gli occhi attenti a dove mettere i piedi, fino al Passo. Lì aveva concesso una breve pausa, proprio quando il cielo si faceva chiaro. Ma mentre, girandomi, mi sedevo, non avevo trattenuto un grido di meraviglia: lontano, ma imponente, il Monte Rosa si ergeva interamente di color rosa sopra le altre cime ancora annegate nel grigio. Era un'emozione pura, difficilmente ripetibile, simile a quella che avrei provato tempo dopo all'apparire della grande nave illuminata in Amarcord).
Entrammo nella cameretta d'ospedale accompagnati da un'infermiera che, rapida, si avvicinò all'ampia finestra e con gesto deciso la liberò dalle tendine. Io di colpo mi bloccai, lo sguardo oltre i vetri, fisso,come assente, preso da un'emozione vivissima. Mia figlia se ne accorse e mi chiese premurosa che cosa mi capitasse. Appena ricomposto, le mostrai la montagna nera che si notava lontano, ben distinta dalle altre e le ricordai quello che tante volte avevo raccontato in famiglia, tra un benevolo ascolto e un sorrisetto che tradiva l'incredulità. "Ma sì Papi, sarà stato come camminare sul muretto dell'orto" diceva mio figlio. Eppure...
Rimasto solo mi sedetti sul bordo del letto e guardando la montagna dimenticai perché mi trovavo lì. La mattina seguente, dopo un sonno continuamente interrotto dall'elicottero che veniva a posarsi sul tetto dell'ala vicina, la prima cosa ad imporsi fu ancora lei. E così per altri due giorni. Sdraiato sul lettino che mi conduceva in sala operatoria, nel vano della porta che si chiudeva, l'ultima immagine, lontana, fu ancora il Vanil Noir. Seguirono giorni bui, senza montagno o cieli, o fiori, a colorare i sogni, ridotti a un grigio altalenare di forme imprecise. Dopo quattro giorni, al ritorno dal reparto di cure intense, mi sentii felice vedendo la montagna ancora lì, salda e incrollabile ad aspettarmi, e senza rendermene conto cominciai a convincermi che se il miracolo di un'emozione così viva sapeva rinnovarsi, anche un altro miracolo avrebbe potuto avverarsi..
Per tre settimane ancora, ogni volta che guardavo dalla finestra, riemergeva il ricordo di una scampagnata indimenticabile. In compagnia di alcuni amici ero partito in bicicletta con il necessario per il bivacco. Costeggiato il lago di Gruyère e saliti verso Charmey, ci eravamo inoltrati in una valle laterale. Ricordo più di tutto il torrente che scorreva gonfio e rumoroso. Giunti alle pendici della montagna e rinfrescati in quell'acqua gelida e vorticosa, avevamo preparato la grigliata. In una radura fra gli alberi, attorno al fuoco, avevamo riso e discusso fino a tardi. Poi ci eravamo ritirati sotto la tenda, e a un metro da un torrente in piena che scorreva urlando nel buio, mai dormii tanto bene in vita mia. La mattina presto ci incamminammo verso la cima. Due i punti difficili: dapprima una costa ripidissima, ricoperta di materiale friabile. Ghiaia quasi nera, roccia sfaldatasi in lamine sottili, tappetini di muschio ricoperti di campanelline bianche, fragili come l'aria. Un passo falso e si scivola per duecento metri. Poi il crinale, non difficile in sé, ma fuori portata per chi soffre di vertigini. Con noi c'era uno studente catalano, per la prima volta in montagna. Il primo passaggio lo superò tra due compagni attenti a guidarlo, mentre lui, dandoci dei pazzi, teneva incollata la mano sinistra alla tempia per non vedere il precipizio. Raggiunto però uno spiazzo all'inizio dell'ultimo tatto, l'amico catalano non volle più continuare. Seduto con la testa tra le mani, ci rimproverava, tra il serio e il bonario, di averlo cacciato in un bel guaio: "E adesso come faccio a scendere? Siete stati pazzi a portarmi qui!".
Per paura delle vertigini o per non lasciarlo solo, anche gli altri si fermarono. Per me invece era impossibile rinunciare, quando la meta era lì davanti agli occhi. Continuai da solo. Dapprima con prudenza, poi sempre più sicuro superavo i grossi massi piegando un ginocchio contro il petto e cercando di afferrarmi con le mani al successivo. Di fianco, oltre i blocchi di roccia sporgenti a strapiombo, il vuoto. Se mi voltavo verso gli amici,gridando e gesticolando, loro mi rispondevano con richiami e ampi gesti della mano. Solo l'amico catalano restava seduto, continuando a guardare ostinatamente per terra. Gli ultimi metri li feci saltando da un sasso all'altro come un funambolo, ma quando mi voltai verso gli amici fui deluso nel vedere l'accoglienza assai tiepida di tale impresa. La spiegazione la conobbi al ritorno, tutto di corsa sul filo frastagliato della montagna. Erano spaventati e si spiegò per tutti Vicente, che invece di un complimento mi buttò là uno stringato "T'es fou, Albert!".
Poco tempo fa, in gita a Barcellona, appena giunto in albergo gli ho telefonato. La sera ci siamo trovati con le rispettive mogli in un tipico ristorante, davanti a una tavola ricca delle più incredibili varietà di tapas. Parlando della degenza all'ospedale di Berna, chiesi all'amico di indovinare che cosa vedevo dalla finestra della mia camera, lontano, oltre Friborgo. Di colpo il suo viso si illuminò. Ridendo compiaciuto cercava di ricordarsi il nome della montagna, e appena glielo dissi, dopo trentacinque anni, ripetè parola per parola quanto avevo raccontato in casa tante volte, senza esser preso sul serio. Con gesti e inflessioni della voce che ricreavano lo spavento provato, diventava credibile l'audacia dimostrata, anche se ormai tutto questo non contava più. Strane coincidenze: mi sembrava di rivivere la sensazione provata nella mia camera d'ospedale nel vedermi davanti agli occhi proprio quella montagna e per la prima volta mi rendevo conto di quanto la sua presenza fosse stata importante.
Vicente aveva terminato il suo racconto, ma scrollava ancora il capo: "Non potevo guardarti, mi girava la testa solo a vederti! Eri pazzo, Alberto!".
Avrei voluto rispondere che se quella sera luminosa di dicembre mi trovavo a Barcellona era in parte merito di quelle pazzie, ma i pensieri mi avevano nel frattempo trascinato lontano: dimenticati i commensali, pensavo a quanti, colpiti da un tumore, non hanno avuto la mia fortuna, ma forse nemmeno la voglia di lottare, di scalare e vincere la montagna del male.